Se la didattica a distanza va a lezione con il design, s’impara bene e s’insegna meglio

Se provassimo a trovare nella dimensione domestica una risposta per favorire la concentrazione e non sentirsi troppo soli mentre si studia o si insegna, non sarebbe forse il design a rispondere?

“Papà, ma se non vado a scuola come faccio a innamorarmi?”. Alcune scuole medie sì ma le scuole materne no; i licei e gli istituti tecnici al 100%; dipende anche dal colore della regione, dal numero dei casi di contagio sul territorio, dalle scelte dei presidi – insomma, la didattica a distanza non è una materia esatta. Criticata, discussa in parlamento o al bancone dei bar (quando stavano tutti aperti); disapprovata quanto difesa: è solo una pratica momentanea o un nuovo approccio allo studio? Non possiamo prevedere il futuro, ma possiamo osservare come stia chiedendo alle nostre case di prestare il loro servizio migliore. Zoom, Teams, Hangout: la classe è in prossimità della cucina e l’apprendimento va online.

C’è vita oltre lo schermo, c’è la casa del professore e quella dell’alunno. Non era ormai sconsigliato varcare la soglia privata fra chi insegna e chi impara? Quanto avremmo desiderato scoprire che il nostro professore di filosofia teneva appeso un poster di Sartre pasticciato e con gli occhiali da sole vicino alla sua libreria? La didattica a distanza cambia – di molto – il metodo di studio, quello di insegnamento e le relazioni. L’alunno può sbirciare i titoli dei volumi che stanno dietro al busto del professore e all’insegnante si rivela il gusto e l’ordine della casa dei suoi studenti – la personalità è servita. E se tutto si basa sulla tecnologia, il tablet e il Wi-Fi devono funzionare alla perfezione; così come lo spazio debba rispondere alle esigenze: la luce giusta, la sedia comoda, la scrivania ampia – regole, queste, utili ai ragazzi tanto quanto agli adulti.

Non c’è più alcuna cattedra che tenga e nessuno sta seduto all’ultima fila. “Non esistono più gerarchie spaziali: non c’è più un capotavola per il capo, non più i fedelissimi che sono al suo fianco. Nelle griglie in cui è suddivisa la schermata appariamo uno di fianco all’altro; ingrandito, di solito, è solo chi prende la parola” scrive Gaia Manzini su Il Foglio. Tutti gli studenti saranno pure simili dietro lo schermo, ma l’ambiente no. Nessuno siede in prima fila, la classe non ha più niente a che vedere con quello spazio fisico, lo stesso per tutti, da condividere. Tempio per la mente. La lezione non è frontale, l’apprendimento è in solitudine, non si va alla lavagna a scrivere l’incipit di A Silvia. Dietro al computer o di fianco – basta che sia fuori campo – proveremmo tutti, durante un’interrogazione online, a tenere aperto il libro sulla pagina di Storia che si è studiata di meno (sempre che il professore non si affidi ad applicazioni Web come 110 Cum Laude: vietato copiare).

Insomma, se cambia la funzione della classe – intesa come spazio di apprendimento – allora cambiano le relazioni e la cultura dello studio. Ma se provassimo a trovare nella dimensione domestica una risposta atta a favorire la concentrazione, a non sentirsi troppo soli mentre si sottolinea un libro o si ascolta la lettura di una poesia di Montale, non sarebbe forse il design a rispondere? “Cominciavo allora a pensare che se c’era un senso a fare oggetti era che aiutassero la gente a vivere in qualche maniera” scriveva Sottsass nel 1971. Sì, quello che ci circonda ci aiuta a vivere.

Fonte: elledecor.com

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